Davanti a me ho questa foto ingiallita nel tempo: i nonni paterni Giordana con la loro famiglia riunita, quattro dei sei figli erano emigrati in Francia e furono richiamati in patria dai nonni per questa foto.

Siamo nel 1926, ecco i miei nonni con l’abito da festa grande e la loro famiglia, tutti ben vestiti per questa occasione importante, i maschi sembrano appena usciti da un set, tutti in posa e attenti all’obiettivo. La prima a sinistra è Maria (Marietta) del 1904, andata in sposa a Vallati Francesco. Sarà l’unica dei sei figli a non calpestare il suolo francese.

Giacomo, classe 1903, bello ed esuberante; lui e mio padre ne hanno combinate tante (così si racconta); il motto dello zio era “doma en causs an bissun, ed fije ne sòrtu en barun”. Sarà Maria Tomatis dei Rucasset ad ammansirlo! Emigrato a La Seye sur mer presso Tolone, lavorava nei cantieri navali. Possedeva metà della nostra casa e quando con la famiglia ritornava al paese per un mese, noi andavamo a dormire nel fienile. Quando vendette a mio padre la sua parte, continuarono a venire sempre ben vestiti e sempre profumati e naturalmente gratis. Prima di andare verso il fallimento, mio padre chiuse l’hotel; io poi ho buttato via pure le chiavi.

Al centro Celestina del 1908, emigrata anche lei in Francia, a Le Brusc, dopo la rada di Tolone. Era andata a raccogliere i fiori, ma oltre i fiori ha raccolto il cuore del figlio unico del vicino che poi sposò. Ha sempre avuto una parte speciale nel mio cuore.

Sempre in alto a destra c’è mio padre Angelo, nato nel 1901; all’epoca lavorava alla Grande Combe presso Arles da minatore, tornò non solo per la foto ma anche per chiedere la mano a mia madre, pensando di portarla con sé in Francia dove c’erano già tanti di San Michele; mia madre rispose picche e lui per amore rimase in Italia.

A destra accanto a mio padre c’è Margherita, 1906, che qui è incinta del primo figlio. La bella Margherita, “bela coma na Madòna”, sposa anche lei un Tomatis dei Rucasset. Davanti a me ho la foto del fidanzamento, sono entrambi bellissimi, lui moro, capelli neri e ricci tipici dei Tomatis, lei bionda, viso dolce, grandi occhi che incantano. Emigreranno in Francia a St Martin del Var, coltivando agrumi, rose e fiori da taglio. Nonostante la nascita di sei figli, quattro viventi, qualcosa non funziona. La situazione economica non è buona e diventa disastrosa quando la zia Margherita muore ancora giovane di polmonite. Era molto affezionata al paese di San Michele e devota alla Madonna della Lòsa.

Il figlio maggiore, 14 anni, andrà a lavorare nei fiori, con gli anni si specializzerà con i ranuncoli e diventerà famoso a livello internazionale per l’ibridazione. Pur non avendo mai visto il paese, per tanti anni manderà fiori alla chiesa, garofani a Natale e anemoni a Pasqua. Don Macagno lo ricordava in chiesa ringraziandolo. Le due sorelle andarono in collegio e il più piccolo in orfanotrofio. Fu allora che la zia Celesta, d’accordo con il marito e la figlia, decisero di prenderlo in affidamento e lo allevarono come un figlio.

Al centro, in mezzo ai genitori, troviamo Angela, 1916, chiamata Anna, qui a 10 anni; quando sarà più grande andrà a servizio. Troverà anche un lavoro in un ristorante a La Briga, nel vallone di Levenza, vallone laterale della Valle Roya, allora appartenente al Piemonte. Lì conosce un operaio della P.C.E., che lavora su pali e fili, Alfredo Ciampi. Si innamorano e si sposano abitando nel paese. Le due bambine andranno a scuola imparando l’italiano. Ma i venti di guerra già soffiano…

Dopo il lungo e rovinoso conflitto, l’Italia perde anche quei territori. Dal Piemonte non arriva più nulla e i francesi li tengono sulla corda. La situazione è difficile e complicata. Fu dopo la guerra che conobbi lo zio Alfredo, alto e robusto; arrivava da noi con una bicicletta con due grandi porta pacchi alti con sopra due grandi scatoloni vuoti. Le ruote erano fasciate con dello spago grande per non consumare le gomme; non potendo usare i freni, c’era un’asse legata al pedale con sotto inchiodato del copertone per fare aderenza al terreno. Di quel periodo di visite ne ricordo due che mi sono rimaste nella testa. Un giorno mia madre aveva preparato una grande toma e l’aveva messa nel nido di paglia a scolare. Sulla stufa, dentro al piolo cuocevano le patate. Arrivò lo zio Alfredo, pallido forse per la fatica, o forse aveva solo fame. Mia madre a colazione mise sul tavolo del pane e la toma che lo zio continuava a tagliare e mangiare emettendo suoni di goduria. A quel punto mia madre per frenarlo faceva domande sulla zia e le figlie, lui non rispondeva a voce ma solo con cenni di testa. A questo punto mia madre strinse i pugni appoggiandoli sui fianchi: era una posizione che purtroppo già conoscevo quando ne combinavo qualcuna. Fu così che mia madre levò il tutto; allo zio, colto di sorpresa, non restò altro che scusarsi tante volte. A pranzo, quando papà arrivò dai campi, mangiammo le patate e la toma. Lo zio ringraziò tanto per le patate stufate ma non nominò più la toma.

Un’altra volta ci portò quattro banane intere e tante bucce. Alla dogana le volevano sequestrare e lui, per non pagare, le mangiò tutte, accetto le quattro consentite dalla legge. Per diversi giorni ho osservato quelle bucce sul cumulo della mutera, sarebbero state mie….

Nelle grandi scatole i miei genitori mettevano i prodotti di campagna e orto: farina bianca, gialla, patate, noci, castagne, uova, pane e verdura. Perché da loro era difficile trovarle e noi ne avevamo abbastanza. Gli zii poi scesero verso Nizza. Allo zio venne offerto un lavoro meno faticoso alla EDF e fu così che divennero francesi per necessità.

Conobbi la zia e le due figlie quando già stavano nei dintorni di Nizza. Ero da solo dietro casa, giocavo a fare il prete dicendo messa, due cassette per altare, due porta candele, il crocefisso della nonna e il libretto di preghiere usato come messale. Mancava il paramento che rimediai con un grembiule della mamma; non aveva ricami, solo toppe e rammendi. Come fedeli, solo il cane Murin che presto si alzò perché sulla strada c’erano una donna con due ragazze, tutte e tre vestite come le venditrici del filo elastico. A completare il tutto, il foulard messo a “tupina” tipico di quelle donne. Ero sicuro che il cane non le avrebbe lasciate entrare nella proprietà, così continuando nella funzione in un latino che lascio immaginare… Mi inginocchio, mi alzo e rivolto verso l’ipotetica navata, dico “Ite, missa est” e mi ritrovo davanti le tre tupinere con il cane ai loro piedi. Loro mi sorridono, io imbarazzato al massimo, rosso in viso che le cugine scoppiano a ridere, un movimento del braccio e le due come un robot si ricompongono.

Fu così che conobbi la zia Anna che in futuro mai parlò di quella messa, né con me, né con i miei genitori. Con le cugine ogni tanto ci ridiamo ancora su. Raccontarono che il cane annusò le gambe, mosse la coda, aveva riconosciuto il PH di famiglia e li condusse fino a me, giusto in tempo per la benedizione.

Giancarlo Giordana